sabrinacostantini.over-blog.it, 13.06.2011
Bugia, Fantasia, Negazione, Vergogna?
Dott. sa Sabrina Costantini
Quando la bugia interviene nel corso di una relazione, costituisce sempre un elemento di disturbo e turbamento. Avvertire che l’altro ci sta mentendo, con prove o meno certe, insinua un’ombra di sospetto e sfiducia, che incrina inesorabilmente quel rapporto.
Lo incrina perché ci disorienta, non sappiamo chi è colui che ci sta davanti, che ci fornisce una certa immagine di sé. Cosa di tutto quello che ci rimanda, è vero? Cosa di quello che ci vuol dare ad intendere, è reale? Quanto sono sincere le emozioni, la simpatia, l’attenzione, le parole, che ci sta rivolgendo? Cosa noi, rappresentiamo per lui/lei? A cosa dobbiamo credere? La realtà in quel momento è incerta, instabile e inafferrabile, non abbiamo sicurezze e ci sentiamo senza strumenti, di fronte a questa persona rivelatasi sconosciuta.
La bugia del bambino disorienta ancora di più il genitore, che si trova a doverla gestire malgrado lui. Ma a differenza della relazione con un adulto che mente, che spesso si chiude o si limita in quantità, tempo, fiducia, in questo caso ci troviamo a non poter far a meno della relazione stessa, per amore, per necessità, per responsabilità, ecc. Qui, si crea la prima difficoltà, di origine emotiva.
Molto spesso, l’idea di aver a che fare con un figlio moralmente non adeguato suscita così tanta ansia (non sempre consapevole e riconosciuta), da produrre un’attribuzione di valore rispetto alla sua condotta, a volte prematura e inesatta. Immediatamente si affacciano alla mente domande come: «Che individuo è diventato mio figlio?», «Chi è?», «In cosa ho sbagliato?»
E spesso tutto questo termina con un «Bugiardo!», pieno di disprezzo, rabbia e paura. E la relazione comincia a incrinarsi, la persona comincia a distanziarsi, s’insinua il dubbio ed il tacito sospetto. E quando questa persona è nostro padre e/o nostra madre, è un vero dramma!
Cerchiamo di togliere un po’ di pesantezza a questa condotta e proviamo ad addentrarci in questo tunnel sconosciuto. Partiamo da una semplice definizione, proveniente da uno dei tanti vocabolari della lingua italiana: «la bugia consiste nell’affermazione volutamente contraria alla verità».
[…]
D’Aloisio suggerisce di cogliere la «fiaba del bambino» ovvero il racconto di sé e del suo mondo, fatto di intrecci e incontri segreti con il suo vero interno, il suo vero sé, le sue motivazioni, i desideri, le paure, i fantasmi, ecc. Il racconto fantasticato e inventato del bambino, l’immagine fasulla di sé, le bugie quindi, rappresentano un filo conduttore che ci conduce al suo vero mondo interno, è una sottile linea di confine fra vero e non vero.
In considerazione di quanto detto fino ad adesso, ritengo un po’ impropria la definizione «Sindrome di Pinocchio». Impropria riferita ad una condizione di bugia cronica e persistente, ma assai propria riferita alla condizione dell’infanzia. Se ci pensiamo bene, Pinocchio non era bugiardo, non aveva l’intenzione e l’intento di mentire, bensì la naturale difficoltà di quest’età, nel portare avanti quanto promesso. Carlo Collodi ci descrive la condizione evolutiva del dover scegliere il «dovere», per rinunciare al «piacere». Ma come mostra il libro, non è un’acquisizione semplice e richiede tempo. Spesso gli stessi adulti non sanno rinunciare al piacere o ad un vantaggio immediato e non possiamo certo pretendere, che lo sappiano fare i bambini e gli adolescenti. Come ci ha ben spiegato S. Freud, è necessario che il principio di realtà raggiunga la sua forza, in modo tale da far fronte al principio di piacere, ma questo processo inizia fin dai primi mesi di vita e non termina mai, è frutto di acquisizione permanente.
Pinocchio infatti, è animato dalle migliori buone intenzioni, ma la difficoltà risiede proprio nel portare avanti queste intenzioni, soprattutto nel momento in cui si affaccia un teatrino, un divertimento, qualcosa di festoso che sarà passeggero e una volta perso, non se ne potrà più godere. Per cui, non si può dire che Pinocchio menta in modo sistematico, ma semplicemente che rappresenti un bambino con i suoi impulsi e desideri. La storia di Pinocchio poi, avendo una connotazione moralistica propria delle favole e/o delle storie, attribuisce estremo valore all’educazione, ci mostra un personaggio «burattino in preda alle pulsioni», che si trasformerà in un bambino in carne ed ossa, solo e unicamente nel momento in cui riuscirà a portare avanti con costanza e dedizione, gli impegni presi.
Carlo Lorenzini, in arte Collodi, per primo, assumendo il nome del paese natio come identità letteraria, mostra nel concreto della sua vita, un’estrema dedizione e abnegazione alle regole sociali. Ciò che viene auspicato per Pinocchio e per tutti i «bravi bambini».
M. Titze propone un visione molto articolata di questa sindrome, al di fuori della usuale attribuzione. Mette in primo piano il senso di vergogna dell’individuo rispetto a sé, che origina dal rapporto fra il bambino e genitori egocentrici. Questo genere di genitori cioè guarda unicamente ai propri bisogni e «impone» al figlio, attraverso una serie di modalità dirette, indirette, dure, morbide, manipolative, ecc., di aderire a questi bisogni, impedendo lo sviluppo della sua personalità e dei suoi bisogni, compresi quelli di socialità extrafamiliari. Si arriva quindi alla sindrome di Pinocchio, come espressione di una gelotofobia, dove il termine greco gelos rimanda a risata, per cui si tratta di individui spaventati fino ad esserne fobici, di essere derisi e ridicolizzati, temono cioè che si rida di loro, vivendo in costante vergogna ed imbarazzo di sé, qualunque cosa accada intorno.
Sembra un salto lungo, ma ciò che Titze ci vuol far intuire è che Pinocchio, è un burattino in mano a genitori egocentrici. Del resto, Geppetto lo costruisce per stemperare la sua solitudine, per avere finalmente delle soddisfazioni e per avere un bastone della vecchiaia, la fata da parte sua alterna in modo ambivalente due posizioni, un ruolo di «fata bambina» nelle vesti di sorellina, un ruolo di «fata madre» esigente e dura, una mamma che pretende molto e che lo deride del suo «naso menzognero», che lo ricatta facendolo sentire responsabile del suo dolore e della sua morte. Alla fine pinocchio è spinto a fare sempre ciò che gli altri si aspettano da lui. E di figure che gli chiedono delle cose, ce ne sono tante (Geppetto, la fata, l’insegnante, Mangiafuoco, Lucignolo, il Gatto e la Volpe, ecc.), appunto è un burattino in mano al desiderio altrui. Ogni volta che segue il proprio desiderio si trova a subire forti sciagure, prima di tutte l’abbandono e la solitudine, in seconda battuta l’essere trasformato in un animale, rischiare la vita, incontrare lungo il percorso ogni genere di animale e disavventura, quale proiezioni delle angosciose paure infantili (serpente, pescecane, essere impiccato, bruciato, ecc.)
Per cui, consapevoli in modo più o meno conscio di non essere sé stessi, ma di essere solo «burattini», vivono il terrore di essere smascherati e derisi, perdendo definitivamente il valore e la possibilità di sorridere e ridere. Si smarrisce, non solo una parte della propria individualità, ma anche uno strumento importante di alleggerimento e serenità con sé e con gli altri, la relazione vissuta con piacere e nel piacere della leggerezza e del gioco.
L’individuo che emerge quindi, assomiglia molto a quello che Gabbard (pp. 496-498) ha definito Narcisista ipervigile, una variante del disturbo narcisistico di personalità (come descritto nel DSM IV-TR), dove l’individuo è estremamente sensibile alla critica, vive costantemente sotto la luce della vergogna e dell’imbarazzo. Per evitarlo, si nasconde in ogni angolo del mondo, sperimentando uno stato di allerta continua, l’ambiente è sotto continua osservazione per poter captare elementi a cui adeguarsi, le aspettative a cui aderire, le linee guida dell’accettazione insomma.
All’interno di questo quadro, la bugia si inserisce come modalità costante di stare in relazione con sé e con il mondo, non si è mai sé stessi, ma si recita sempre un copione in base a cosa l’ambiente si aspetta, o meglio in base a ciò che l’individuo ritiene che l’ambiente si aspetti. La bugia quindi, non è in primo piano in sé e per sé, ma diventa un meccanismo di difesa permanente, una parte stessa degli usuali processi relazionali, la base della costruzione della personalità, pena il rifiuto e l’abbandono. La vera personalità (se mai ha avuto modo di svilupparsi) si nasconde sotto una maschera, imposta dalla sopravvivenza emotiva. Si è persa anche l’origine della bugia e della vergogna, vive un sottile senso di inadeguatezza, giustificato via via con varie circostanze esterne, ma nel fondo di sé sa, che non andrà mai bene, non farà mai abbastanza e non sa perché.
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Bugia è un atto considerato grave, vergognoso, da nascondere ed il bugiardo con essa, ne assume tutti i connotati. Il bugiardo è qualcuno che non va bene, è riprovevole, sporco, truffatore, inadatto, beffardo, amorale. Il bugiardo si deve vergognare perché mente e questa condotta è condannabile.
In realtà, come ci ha mostrato Titze, Pinocchio si vergogna non delle bugie ma di sé, di ciò che è, vive un costante senso di inadeguatezza e inconsistenza, proprio perché non è sé e pensa che ciò che è, debba essere nascosto perché inadeguato e non amabile. Le bugie diventano una necessità emotiva: si rischia la disgregazione.
E del resto, vivere in un mondo di menzogne è come stare in un inferno di cristallo, in una prigione senza vie d’uscite, come essere rinchiusi in un sarcofago, all’interno di una stanza segreta che nessuno mai troverà! Veramente angosciante! Nessuno sa chi siamo e mai lo saprà e noi stessi ormai, non conosciamo più qual è la strada del ritorno.
Pensiamo all’effetto che può avere tutto ciò su un bambino in crescita, che sta cercando una definizione di sé, una comprensione di sé! Sicuramente castrante, sicuramente delimitante e instradante. Gli si dice cosa noi crediamo che sia, cosa non deve essere e quale sarà la sua forza, non la sincerità ma la menzogna, perché altro non può fare! Eric Berne amava dire in modo chiaro che se si vuole creare una certa condotta, basta dargli l’etichetta contraria, ovvero se vogliamo un bambino dipendente dobbiamo dirgli che è un ribelle, attivando così forze contrapposte, conflitti e sensi di colpa, che portano proprio ad un legame indissolubile. Perché in realtà l’etichetta è contraria solo in apparenza, la ribellione infatti è un atto di grande dipendenza, l’individuo non agisce in base a ciò che sente, ma in base a ciò che è opposto all’indicazione genitoriale, quindi il punto di riferimento non è lui, ma loro! Non ciò che lui desidera, ma l’opposto di quanto loro vogliono, quindi pur sempre ciò che loro prescrivono o vietano.
Alla stessa stregua pensiamo che definire un bambino bugiardo e rimarcare le sue azioni come bugia, non porta certo a creare sincerità, ma bugia!
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Se insegniamo con la forza dell’amore e del legame, anziché con la forza del diritto, della prepotenza e della morale, la vergogna non troverà terreno fertile. Non ci sarà un giudizio con cui confrontarsi e da cui nascondersi, ma «verità di vita».


BIBLIOGRAFIA

D’aloisio A. La bugia nel mondo dei bambini. Scoprire il «racconto» che occulta la verità. www.lascuolapossibile.it
Gabbard G.O. (2007). Psichiatria psicodinamica. Quarta Edizione. Raffaello Cortina Editore.
Piaget J. (1937). Il giudizio morale nel fanciullo. Giunti, Firenze.
Titze M. La vergogna e il «Complesso di Pinocchio. Rivista di Psicologia Individuale. Gen-Giug, 43, 15-29,1998.