Facebook, 27.09.2011
La vergogna e il «Complesso di Pinocchio»
(Per quelli che non amano le bugie OCCHIO A … pinOCCHIO)
Il dott. M. Titze, psicologo tedesco, propone una visione molto articolata di questa sindrome, al di fuori della usuale attribuzione. Mette in primo piano il senso di vergogna dell’individuo rispetto a sé, che origina dal rapporto fra il bambino e genitori egocentrici. Questo genere di genitori cioè guarda unicamente ai propri bisogni e impone» al figlio, attraverso una serie di modalità dirette, indirette, dure, morbide, manipolative, ecc., di aderire a questi bisogni, impedendo lo sviluppo della sua personalità e dei suoi bisogni, compresi quelli di socialità extrafamiliari. Si arriva quindi alla sindrome di Pinocchio, come espressione di una gelotofobia, dove il termine greco gelos rimanda a risata, per cui si tratta di individui spaventati fino ad esserne fobici, di essere derisi e ridicolizzati, temono cioè che si rida di loro, vivendo in costante vergogna ed imbarazzo di sé, qualunque cosa accada intorno.

Sembra un salto lungo, ma ciò che Titze ci vuol far intuire è che Pinocchio, è un burattino in mano a genitori egocentrici. Del resto, Geppetto lo costruisce per stemperare la sua solitudine, per avere finalmente delle soddisfazioni e per avere un bastone della vecchiaia, la fata da parte sua alterna in modo ambivalente due posizioni, un ruolo di fata bambina» nelle vesti di sorellina, un ruolo di fata madre» esigente e dura, una mamma che pretende molto e che lo deride del suo naso menzognero», che lo ricatta facendolo sentire responsabile del suo dolore e della sua morte. Alla fine pinocchio è spinto a fare sempre ciò che gli altri si aspettano da lui. E di figure che gli chiedono delle cose, ce ne sono tante (Geppetto, la fata, l’insegnante, Mangiafuoco, Lucignolo, il Gatto e la Volpe, ecc.), appunto è un burattino in mano al desiderio altrui. Ogni volta che segue il proprio desiderio si trova a subire forti sciagure, prima di tutte l’abbandono e la solitudine, in seconda battuta l’essere trasformato in un animale, rischiare la vita, incontrare lungo il percorso ogni genere di animale e disavventura, quale proiezioni delle angosciose paure infantili (serpente, pescecane, essere impiccato, bruciato, ecc.). Per cui, consapevoli in modo più o meno conscio di non essere sé stessi, ma di essere solo burattini», vivono il terrore di essere smascherati e derisi, perdendo definitivamente il valore e la possibilità di sorridere e ridere. Si smarrisce, non solo una parte della propria individualità, ma anche uno strumento importante di alleggerimento e serenità con sé e con gli altri, la relazione vissuta con piacere e nel piacere della leggerezza e del gioco.
L’individuo che emerge quindi, assomiglia molto a quello che Gabbard (pp. 496-498) ha definitoNarcisista ipervigile, una variante del disturbo narcisistico di personalità (come descritto nel DSM IV-TR), dove l’individuo è estremamente sensibile alla critica, vive costantemente sotto la luce della vergogna e dell’imbarazzo. Per evitarlo, si nasconde in ogni angolo del mondo, sperimentando uno stato di allerta continua, l’ambiente è sotto continua osservazione per poter captare elementi a cui adeguarsi, le aspettative a cui aderire, le linee guida dell’accettazione insomma.

All’interno di questo quadro, la bugia si inserisce come modalità costante di stare in relazione con sé e con il mondo, non si è mai sé stessi, ma si recita sempre un copione in base a cosa l’ambiente si aspetta, o meglio in base a ciò che l’individuo ritiene che l’ambiente si aspetti. La bugia quindi, non è in primo piano in sé e per sé, ma diventa un meccanismo di difesa permanente, una parte stessa degli usuali processi relazionali, la base della costruzione della personalità, pena il rifiuto e l’abbandono. La vera personalità (se mai ha avuto modo di svilupparsi) si nasconde sotto una maschera, imposta dalla sopravvivenza emotiva. Si è persa anche l’origine della bugia e della vergogna, vive un sottile senso di inadeguatezza, giustificato via via con varie circostanze esterne, ma nel fondo di sé sa, che non andrà mai bene, non farà mai abbastanza e non sa perché.

In realtà, come ci ha mostrato Titze, Pinocchio si vergogna non delle bugie ma di sé, di ciò che è, vive un costante senso di inadeguatezza e inconsistenza, proprio perché non è sé e pensa che ciò che è, debba essere nascosto perché inadeguato e non amabile. Le bugie diventano una necessità emotiva: si rischia la disgregazione. E del resto, vivere in un mondo di menzogne è come stare in un inferno di cristallo, in una prigione senza vie d’uscite, come essere rinchiusi in un sarcofago, all’interno di una stanza segreta che nessuno mai troverà! Veramente angosciante! Nessuno sa chi siamo e mai lo saprà e noi stessi ormai, non conosciamo più qual è la strada del ritorno.

(fonte: Titze M. La vergogna e il «Complesso di Pinocchio. Rivista di Psicologia Individuale.» Gen-Giug, 43, 15-29,1998 - Gabbard G.O.  (2007) Psichiatria psicodinamica - Quarta Edizione. Raffaello Cortina Editore.)