Capitolo nel libro: Il coraggio di non essere perfetti, a cura di R. Kausen, Citadella Editrice, Assisi, 1996, p. 50-63
Il coraggio della propria imperfezione fisica
Michael Titze
In tutta la storia dell'umanità, l’aspetto di una persona, la sua presenza, ha sempre avuto un ruolo significativo. Com’è noto, due divinità classiche, Adone e Afrodite, erano adorate come dei della bellezza fisica. Fortunatamente molte statue di quell'epoca sono giunte fino a noi e chi visita oggi i nostri musei può farsi un’idea della bellezza di un’Afrodite, di una Venere o di un atleta olimpico. E nessuno resta insensibile di fronte a queste personificazioni marmoree del nostro ideale di bellezza. Chi, osservando queste statue, penserebbe che nella storia dell’umanità si sono susseguite molte epoche in cui l'ideale di bellezza fisica era completamente diverso?
Supponiamo ora che il nostro visitatore lasci il settore del museo dedicato all’arte classica greca per passare alla sala in cui si conserva la collezione di pezzi dell'arte tardo-neolitica. II museo espone per caso due dei maggiori gioielli di quell'epoca, e cioè la «Venere di Hallstatt» e la «Sleeping Lady» dell’Isola di Malta. Sono raffigurazioni in pietra di corpi femminili che, con ogni probabilità, corrispondono all'ideale di bellezza dell'era arcaica. Ma quanto si discostano queste due figure femminili non solo dalle statue classiche di cui parlavamo prima ma anche dalle fotomodelle che ornano le copertine di tante riviste moderne! II loro seno e le natiche sono, a nostro giudizio, grassi in modo addirittura antiestetico. E anche gli arti sono decisamente pingui. Qualunque donna che avesse, al giorno d'oggi, un simile aspetto personale sarebbe giudicata obesa e sottoposta a una dieta strettissima. Eppure in quei tempi lontani una siffatta figura corrispondeva ai canoni di bellezza.
Può darsi che a questo punto il lettore obietti che gli uomini dell’età della pietra erano ancora a uno stadio di sviluppo relativamente primitivo e che quindi anche la loro sensibilità estetica era primitiva e arretrata. Prima di addentrarci in questo argomento, accompagnamo ancora per un po’ il nostro visitatore nel suo giro per il museo: ha lasciato il settore dedicato all'arte antica ed entra ora nella sala in cui sono esposti i dipinti dei maestri del passato. Alle pareti sono appese, tra l’altro, le grandiose opere dell'artista barocco Rubens. Osservando i corpi umani raffigurati in questi quadri il nostro visitatore si accorgerà che l'ideale di bellezza di quel tempo si avvicina a quello dell'era neolitica. I dipinti di Rubens mostrano infatti corpi molto floridi.
Vediamo dunque che gli ideali e i gusti riguardanti l'aspetto esteriore sono fortemente Soggetti al mutare dei tempi. E va notato che questo mutamento non si compie necessariamente nel giro di secoli ma spesso in pochi anni. Alla fine del secolo scorso, per esempio, era ritenuta bella la donna formosa, ben dotata Di attributi femminili, mentre dopo la prima guerra mondiale era la delicata figura della donna «fanciulla», adonica, a rispondere all'ideale di bellezza del tempo. Sicuramente ricordiamo ancora come dieci anni fa la magrissima «Twiggy» comparisse su tutte le riviste. La stessa Twiggy ci sorride oggi, completamente diversa, dalle copertine: ha messo su i suoi bei cuscinetti di grasso nei punti in cui, secondo il gusto attuale, sono ritenuti segno di bellezza. In uno dei suoi famosi libri il chirurgo estetico e psicologo Maxwell Maltz racconta come durante gli anni Venti molte donne lo abbiano consultato perché volevano seni più piccoli. Ma già pochi anni dopo accadeva l’inverso. Molte donne si presentavano a lui chiedendogli di dotarle di un seno più grande.
Ricapitolando, possiamo affermare che l’ideale di bellezza è soggetto a continui mutamenti. Non è quindi possibile determinare in modo assoluto ciò che e' bello. Diremmo piuttosto che la bellezza rappresenta un concetto instabile, relativo.

Anche la bruttezza e solo un concetto relativo
Al bello si contrappone il brutto. Partiamo, di regola, dal presupposto che la bruttezza esteriore o fisica sia evidente e ben difficile dà nascondere. Pò quindi opinione diffusissima che in particolare le persone deturpate fisicamente siano brutte. Dovremmo qui enumerare in primo luogo quegli infelici deformi, storpi o stigmatizzati nel fisico fin dalla nascita, ma anche tutti quelli la cui figura e' stata deturpata da malattie o incidenti. Potremmo infatti pensare che sia da ritenersi bello solo chi ha una pelle liscia e membra ben proporzionate.
Nella storia dell'umanità ci sono stati però anche dei periodi in cui una pelle liscia e intatta non era considerata assolutamente bella. Pensiamo solo ai vari popoli guerrieri (a partire dagli spartani, i celti e i germani, fino agli indiani delle praterie del Nordamerica) per i quali il vero ideale di bellezza era rappresentato da un corpo segnato dalle cicatrici come prova tangibile di audacia e valore. E non tanto tempo fa, più di uno studente universitario tedesco, che «ci teneva», mostrava orgoglioso quelle cicatrici da spada, ben visibili, chiamate «schmisse» nel linguaggio delle associazioni goliardiche. Esistono tuttora popoli non europei, presso i quali una pelle liscia è solo segno di grande inferiorità sociale. È per esempio uso comune del popolo nilotico dei nuba, nell'Africa nordoccidentale, tagliare con un coltello le guance ai ragazzi e alle ragazze che entrano nella pubertà. Nelle ferite aperte viene poi messo del fango, per impedire che si cicatrizzino troppo in fretta. Ne derivano cos! delle cicatrici spesse e (a nostro parere) brutte, che sono però l’orgoglio dei giovani nubiani.

Esistono inoltre delle popolazioni dell'Africa Centrale e dei mari del Sud che ricorrono a sistemi particolari per allargare o allungare il labbro inferiore, le narici o i lobi delle orecchie fino a dimensioni sorprendenti. Infine, ancora all'inizio di questo secolo era pratica comune in Cina rompere i piedi delle bambine perché rimanessero piccoli e deformi. Piedi di questo genere rispondevano all'idea vigente di bellezza e leggiadria femminili.
Qualche lettore obietterà forse che tali usi e costumi sarebbero inimmaginabili presso di noi. Veramente? Trovandoci in una piscina, osserviamo più attentamente i frequentatori: probabilmente noteremo presto quanti uomini (e talvolta persino donne) hanno ornato (o deturpato?) la propria pelle con dei tatuaggi.
Rivolgiamo infine brevemente l’attenzione all’abbigliamento. Come tutti sanno, fino a pochi anni fa le minigonne erano l’ornamento, preferito di una ragazza. Se però oggi una donna fosse «così priva di gusto» da presentarsi in pubblico in minigonna, molti non considererebbero bella una tale vista. Lo stesso si dica per la forma e le dimensioni delle scollature, per i vestiti ampi («a sacco») o attillati, per i calzoni a tubo, per le scarpe squadrate o a punta, per tutti i possibili tipi di copricapo ecc. Particolarmente degno di nota è il fatto che l’inventiva dei creatori di moda abbia sempre preso la strada paradossale della «deformazione» di forme fisiche naturali per creare nuove forme di bellezza. Per citare solo alcuni esempi: i fianchi «larghi oltremisura» delle crinoline della belle epoque, la «gobba artistica» dei chimono classici giapponesi, la «parte posteriore imbottita» dei vestiti eleganti degli anni della rivoluzione industriale tedesca, i «vitini di vespa» ottenuti con i busti strettissimi della fine del secolo e le spalle imbottite dei vestiti della fine degli anni Trenta e degli anni Quaranta di questo secolo.

È sempre la maggioranza a decidere quello che è bello o brutto
Bellezza e bruttezza sono concetti relativi, determinati da innumerevoli influssi culturali. Ciò che non è chiaro è chi o che cosa, con il proprio giudizio, definisca le caratteristiche del bello da una parte e del brutto dall'altra. Cercheremo quindi di dare una risposta a questo interrogativo.
Non dovrebbe esserci dubbio che, per esempio, un gozzo non sia bello. Ci sono però delle zone della terra i cui abitanti soffrono di una carenza cronica di iodio. Questa circostanza fa sì che in queste zone i gozzi siano molto diffusi. Le persone con il gozzo hanno quindi un «aspetto normale», appartengono a una maggioranza e a nessun indigeno verrebbe in mente di trovarli brutti.
È risaputo che in Irlanda molte persone hanno i capelli rossi. Là, quindi, a nessuno verrebbe in mente che le persone con i capelli rossi possano essere brutte. Ci sono poi altri paesi, come per esempio la Sicilia o il Messico, in cui le persone con i capelli neri costituiscono la stragrande maggioranza. Un bambino lentigginoso e con i capelli rossi destinato a crescere in uno di questi paesi, si farà molto probabilmente un'idea negativa del proprio aspetto. I suoi capelli rossi, fuori della norma, offriranno sicuramente ai bambini «normali» lo spunto per schernirlo e burlarsi di lui, e non c’è da meravigliarsi se il bambino, a un certo punto, inizia a odiare i suoi «brutti» capelli rossi.
Rendiamoci conto inoltre di quanto debba essere dura la vita per un bambino con la pelle scura nella «bianca» Europa Centrale. Schernito dai coetanei come «moretto», «testa riccia», «arabo» o persino «negro», finirà col convincersi di essere anormale, diverso, brutto, appunto, e quindi inferiore. Se questo stesso bambino crescesse invece in Africa o nei Caraibi, farebbe, come appartenente a una maggioranza scura di pelle, esperienze completamente diverse e, di conseguenza, l’opinione che si formerebbe su se stesso e il proprio prossimo sarebbe infinitamente più positiva.
In una situazione analoga si trovano tutte le persone che, in qualche modo, sono «fuori dell'ordinario». Si può trattare di persone particolarmente alte o basse, particolarmente grasse o magre; in ogni caso, il fatto di avere altre caratteristiche rispetto alla stragande maggioranza è sempre un motivo per sentirsi brutti e inferiori. Pensiamo in proposito a quei bambini che crescono normalmente fino alla pubertà per poi diventare improvvisamente slanciati superando i compagni di un palmo. Si nota subito come questi ragazzi si sentano infelici e a disagio, come cerchino maldestramente e spasmodicamente (con la schiena curva e le spalle cascanti, il che è senza dubbio non bello) di adeguarsi all’altezza media dei compagni per tornare così, paradossalmente, a essere belli. In una simile posizione di «paria» si sentono naturalmente anche quelli molto bassi o quelli particolarmente grassi o magri, Anche queste persone nutrono con ogni probabilità il grande desiderio segreto di essere (belle) come gli altri. Perciò nella vita imboccano determinate strade che dovrebbero condurle a questo fine. Di queste strade parleremo nei prossimi paragrafi.

Passività e fuga nel complesso d'inferiorità
Non ci meraviglieremo poi troppo se la maggior parte delle persone costrette a soffrire per la loro diversità esteriore sviluppasse, a lungo andare, un senso d'inferiorità tale da bloccare la vivace mobilità di una sana organizzazione della propria vita nell'irrigidita immobilità del cosiddetto «complesso d'inferiorità». In realtà è solo una parte relativamente ristretta di queste persone stigmatizzate o «segnate» a imboccare la strada della fuga nella passività. Si tratta di persone che tendono da sempre a concepirsi deboli e indifese e a considerare al tempo stesso gli altri superiori e cattivi e la vita dura e spietata.
In seguito alle scoperte rivoluzionarie di Alfred Adler, nel campo della psicologia individuale, sul modo in cui l’uomo vive in mezzo ai suoi simili prendendo costantemente posizione nei confronti di sé, degli altri e del mondo, il concetto di stile di vita ha acquistato un'importanza fondamentale per la conoscenza scientifica dell'uomo. In precedenza si parlava di «personalità» o «carattere», comprendendo in questo concetto anche il programma fondamentale di vita che ogni essere umano stabilisce dentro di sé. Mentre alla base di questi concetti c’è però l’idea teorica di una «programmazione» dell'uomo in gran parte condizionata da influssi interni (ereditarietà) ed esterni (educazione, esperienze «traumatizzanti», ecc.), il concetto dello stile di vita esprime in primo luogo la presa di posizione attivamente creativa dell’uomo di fronte alla propria realtà esistenziale. Secondo Adler, dunque, non della «realtà oggettiva» dell'esisten sottratti, pur potendolo evitare, ai propri compiti nella vita.
In questo senso la persona scoraggiata trae, in ultima analisi, un grosso vantaggio dai propri difetti esteriori che, a prima vista sembrano solo sfavorirla: il difetto in questione le offre un valido argomento per giustificare e scusare di fronte a se stessa e al mondo il proprio insuccesso e fallimento nei compiti della vita, la propria codardia e passività.
La persona scoraggiata, presa nei lacci del proprio complesso di inferiorità, «tiene» quindi inconsciamente, e paradossalmente, proprio a quei difetti esteriori, a quella bruttezza, contro cui combatte consciamente una lotta fittizia, intensa quanto inefficace. Questa pseudolotta porta spesso fino allo studio del chirurgo estetico. Maxwell Maltz, che abbiamo già citato altrove, riferisce ripetutamente di persone che lo pregavano disperate di sottoporle a un intervento di chirurgia plastica perché dal cambiamento dell'aspetto esteriore si aspettavano una maggiore considerazione di se e un maggiore ottimismo, e quindi la liberazione dal loro complesso d'inferiorità. Maltz ricorda in proposito una ragazza convinta che tutta la felicità della sua vita fosse dovuta al suo brutto naso adunco. La plastica diede ottimi risultati e tutti i parenti e amici, vedendo la ragazza dopo il ricovero, si dissero entusiasti della bellezza del «naso nuovo». Ma sentite un po': la paziente negò energicamente di essere cambiata, lei si sentiva brutta come prima della plastica. Persino quando cercarono di dimostrarle, con vecchie fotografie, il mutamento del suo aspetto, continuò a negare decisamente che qualcosa potesse essere cambiato. Inconsciamente questa ragazza non voleva essere bella: come avrebbe potuto giustificare altrimenti le proprie infelici condizioni di vita, il proprio scoraggiamento e A complesso d'inferiorità? Questa esigenza della funzione di alibi del difetto fisico fa si che altri diventino dei mangiatori indefessi. Se diventano grassi e brutti dispongono «automaticamente» anche di una spiegazione atta a motivare e giustificare il loro insuccesso in amore. La stessa motivazione inconscia è presente in quelle persone che riescono sempre a «conciarsi» in modo da apparire trascurate, sciatte e poco attraenti.

Come fare di necessità virtù
Dall'altra parte ci sono molte persone che, nonostante notevoli difetti nel proprio aspetto esteriore, non si sono rifugiate con rassegnazione nel complesso d’inferiorità. Sono quelle persone il cui stile di vita e' improntato a un atteggiamento coraggioso, positivo e ottimista. Queste persone sono anche in grado di accettare ciò che non pub essere cambiato, rendendolo così sempre più insignificante. Quante persone nel mondo, proprio in questo momento, diventano cieche o storpie o sono orrendamente sfigurate dal fuoco o da qualche materiale corrosivo! Eppure molte di queste sono in grado, nonostante la loro situazione esteriore così bruscamente mutata, di continuare coraggiosamente a vivere. E a un certo punto il difetto esteriore non è più solo una limitazione e un impaccio, ma una sfida, un incitamento al corpo e allo spirito dell'interessato a compensare il danno trasformando il male in bene. Nell'ambito della sua teoria sulla funzionalità ridotta di un organo (che costituisce il punto di partenza della moderna psicosomatica), Alfred Adler ha dimostrato inequivocabilmente che i difetti organici o fisici non solo possono essere compensati, ma rappresentano addirittura un fertile terreno per prestazioni eccezionali. La «inferiorità organica» e il difetto fisico sono quindi lo stimolo per una ipercompensazione fisica e spirituale.
Se, per esempio, un lobo polmonate perde la propria funzionalità, l’altro svilupperà una maggiore efficienza. Se un uomo diventa cieco, sordo o paralitico, gli altri organi compensano per quanto possibile questa perdita: l’udito di un cieco è perfetto quanto la percettività visiva di un sordo. Nelle persone parzialmente paralizzate il tessuto muscolare delle membra sane assume dimensioni atletiche. Persino a persone così dolorosamente defraudate dal destino, come Helen Keller, cieca e sorda, è possibile non solo compensare la propria menomazione ma compiere imprese eccezionali che possono infondere anche agli altri il coraggio di accettare le proprie imperfezioni.
Pensiamo, per esempio, a Wilma Rudolph, la vincitrice delle Olimpiadi di Roma. Da bambina era stata colpita da paralisi infantile e solo una volta adulta era riuscita a riacquistare i movimenti. Quando ebbe completamente eliminato la propria menomazione non smise però di allenarsi. Il coronamento di questa ipercompensazione senza pari fu la medaglia d'oro alle Olimpiadi.
Di tanto in tanto qualche rivista pubblica nuovi particolari sui cosiddetti bambini di Contergan. Con meraviglia e ammirazione il lettore pub constatare in quale modo sorprendente questi giovani abbiano compensato la loro menomazione. Se ci rendiamo conto che nessuno di noi sarebbe in grado di tenere con i piedi una forchetta o un bicchiere, che nessuna persona normale sarebbe capace di scrivere o dipingere con la bocca o col piede, comprendiamo che questa compensazione è in effetti una ipercompensazione. Paul Rom nel suo bel libro parla dell'umanità e del modo di vita di Hermann Unthan, che era nato senza braccia. Le gambe e i piedi di quest'uomo erano talmente efficienti, grazie a un instancabile allenamento, che Unthan nelle sue apparizioni in pubblico poteva battere a Macchina, suonare la tromba e sparare con il fucile.
Ma anche difetti d'altro genere possono essere compensati o ipercompensati. Alfred Adler cita numerosi grandi pittori la cui facoltà visiva era notevolmente ridotta. Da indagini in istituti d'arte è risultato che circa il 70% degli studenti soffre di anomalie agli occhi (cit. da Adler: Heilen und Bilden). Oratori, attori, cantanti e scrittori mostrano nel corso della propria vita fasi di disturbi del linguaggio superiori alla media. Si ricordi il maggior oratore dell'antichità, Demostene, che aveva originariamente difetti di pronuncia. Camille Demoulin, un oratore trascinante, rimase, nella vita privata, balbuziente fino alla morte. Anche il grande scrittore inglese Somerset Maugham balbettava notevolmente.
Molti grandi compositori avevano difetti di udito o erano addirittura sordi, come Beethoven, Smetana e Robert Franz.
Torniamo, per concludere, alla questione della bellezza o bruttezza esteriori. Quelle persone che si sentono brutte e infelici perché basse dovrebbero prendere come esempio Napoleone, il «più grande» di tutti i francesi. che, anzitutto, era quasi un nano e, poi, non era neppure francese di nascita ... Chi va al cinema sa che i grandi caratteristi di solito non corrispondono affatto all’ideale di bellezza esteriore. Ciò vale, tra gli altri, per Asta Nielsen, Humphrey Bogart, Gert Fröbe, Charles Laughton e Barbara Streisand. D'altro canto, l'esempio tragico di Marilyn Monroe ci dimostra che la bellezza fisica non è garanzia di una vita felice e ricca di significato. Quelle doti, come appunto la bellezza, che possediamo già dalla nascita, ci privano infatti della possibilità di compiere, nel corso di un processo di compensazione e ipercompensazione, delle grandi azioni di cui possiamo andare giustamente fieri.